Next Generation IT: un piano ambizioso, ma forse per pochi

Next Generation IT: un piano ambizioso, ma forse per pochi

Gennaio 2022 Off Di Giovanni Brancato

Giuseppe Ciccarone
Prorettore Vicario e alla Terza Missione

La crisi pandemica ha prodotto una discontinuità nelle politiche europee, che hanno previsto uno sforzo fiscale senza precedenti volto a contrastare i danni economico-sociali prodotti dalla diffusione virale e a offrire un futuro migliore alle prossime generazioni. Ingenti investimenti pubblici e riforme strutturali dovrebbero consentire loro di sperimentare, grazie alla transizione ecologica e quella digitale, un modello di crescita più efficiente, a minor impatto ambientale e maggiormente sostenibile anche dal punto di vista sociale.

Senza entrare nel merito del dibattito sull’efficacia del piano europeo che caratterizzerà le politiche economiche del prossimo decennio, guardando all’Italia occorre comunque porsi una domanda preliminare a qualunque ragionamento e valutazione: quanto sarà elevato il numero di individui che comporranno le generazioni future e che godranno di questo migliore modello di sviluppo? Non si tratta di una provocazione, perché chiedersi non solo cosa lasceremo alle nuove generazioni, ma anche quale sarà il loro peso nel prossimo futuro non è un mero esercizio retorico. Si tratta invece di una preoccupazione che non è affatto priva di fondamento. 

Secondo il rapporto dell’Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente”, presentato a dicembre 2021, i nati della popolazione residente nel 2010 erano 560mila ovvero il 38% in più rispetto al dato del 2020. I nati della popolazione residente nel 2020 sono stati 405mila, corrispondenti a 15 mila in meno rispetto al 2019. Si tratta di un nuovo record negativo di denatalità, che è probabilmente destinato ad essere nuovamente battuto nell’anno appena trascorso. I dati provvisori del 2021 non mostrano infatti inversioni di tendenza di un fenomeno che è ormai strutturale: nel periodo gennaio-settembre 2021, le minori nascite sono già pari a 12,5mila. Questi numeri non sono una sorpresa e non sono legati alla pandemia, anche se questa ha probabilmente inciso ulteriormente e negativamente sulla denatalità. Il fenomeno è secolare e non riguarda soltanto l’Italia, anche se il nostro Paese è un precursore del fenomeno, e non per sfortuna o assenza di colpe. 

La questione è particolarmente rilevante per il mercato del lavoro e per il rientro dal debito pubblico. Dalle proiezioni pre-pandemiche dell’Istat si può prevedere che, all’orizzonte del 2050, la popolazione in età da lavoro, si ridurrà di oltre 9 milioni di persone, a fronte di un aumento di almeno 4,5 milioni di persone con più di 65 anni. Si tratta di uno scenario conservativo, basato sull’ipotesi che il numero medio di figli per donna si mantenga sempre al di sotto di 1,3. Dopo la pandemia, in assenza di cambiamenti significatici, questo scenario diventerà anche, con tutta probabilità, quello più plausibile. Le dinamiche di denatalità e longevità, che incidono sempre più prepotentemente sull’invecchiamento della popolazione, rappresentano così un mix particolarmente preoccupante per le future generazioni, che conteranno meno persone e meno lavoratori (almeno potenziali), i quali si troveranno nella necessità di sostenere buona parte dell’elevato onere fiscale prodotto dalla necessità di ripagare il debito pubblico creato in questo periodo di crisi pandemica.

La bassa natalità, combinata con il maggior rischio di povertà per le famiglie con figli, ha un ulteriore effetto negativo sull’economia e sulla società. La trappola della povertà (situazione di assenza di incentivi a lavorare che si verifica quando il reddito da lavoro determina perdite di benefici sociali e aumenti delle imposte capaci di più che compensare quel maggior reddito) genera perdita di capitale umano per i genitori e per i figli – soprattutto nel nostro Paese, dove i loro destini economici, sociali e sanitari sono sempre più correlati con le condizioni delle famiglie di provenienza – e può generare pericolosi circoli viziosi. I giovani, sperimentando precarietà e instabilità dei percorsi lavorativi, e difficoltà a ottenere mutui e a formare le proprie famiglie, dipendono a lungo dai genitori e, per tutti questi motivi, non sono in grado di contribuire all’aumento della natalità, anche per la successiva difficoltà di conciliare tempi di vita e di lavoro.

Le dinamiche qui sinteticamente descritte, collegate a fenomeni secolari e acutizzate dalla crisi pandemica, non sono il frutto del caso, ma anche il risultato delle politiche economiche e sociali attuate in passato. In Italia avere figli è più complicato che in altri paesi, perché le famiglie non sono messe nelle condizioni di investire sulla loro crescita e sulla loro formazione. Tuttavia, quando si guarda al problema in una ottica intertemporale, si comprende con immediatezza che gli squilibri intergenerazionali non attengono soltanto alle singole famiglie, ma alla società nel suo complesso. Per questo motivo è auspicabile che il Next Generation non guardi soltanto al futuro della nostra economia e della nostra società, ma anche al presente delle generazioni più giovani, per creare le condizioni capaci di associare alle transizioni ecologica e digitale una transizione demografica in grado di invertire le tendenze in atto e di arrestare gli effetti particolarmente negativi della denatalità.