Riflessioni di un professore di medicina nella pandemia

Riflessioni di un professore di medicina nella pandemia

Gennaio 2021 Off Di Giovanni Brancato

Marcello Arca
Direttore Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione

Di seguito voglio riportare alcune brevi riflessioni legate all’esperienza che la pandemia da Covid-19 ha imposto a tutti noi docenti di medicina. L’esperienza del Covid-19 è stata veramente un’esperienza globale, un faticoso adattamento del nostro modo di essere docenti.

La prima riflessione riguarda l’impatto che la pandemia ha avuto sull’addestramento al saper fare dei nostri studenti. E fuor di dubbio che l’insegnamento della medicina contiene in sé elementi che non possono prescindere dall’arte, cioè dalla capacità di acquisire e sviluppare un saper fare.

È altrettanto fuor di dubbio che uno degli aspetti più gratificanti dell’insegnamento della medicina è proprio rappresentato dalla possibilità di avere regolari interazioni con gli studenti, di poter apprezzare la loro crescita culturale e professionale che si realizza giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, caso clinico dopo caso clinico. La possibilità di guidare uno studente attraverso tutte le attività legate alla pratica clinica, dal modo con cui ci si pone davanti al paziente, al modo con cui si raccolgono le sue risposte nel corso della anamnesi, fino a come i vari tasselli del mosaico clinico vengono composti in una visione plausibile e ragionevole, ti fa apprezzare meglio l’importanza del tuo ruolo di docente-guida.

L’imposizione del distanziamento fisico ha di fatto passare tutto questo in secondo piano. Attraverso il contatto delle lezioni a distanza è stato estremamente difficile apprezzare quale sia stato il cambiamento che le informazioni trasferite avessero prodotto nella competenza dei tuoi studenti. E non sono certo state sufficienti i momenti di valutazione rappresentati dagli esami. Anche essi hanno dovuto per necessità dare uno spazio preponderante alle competenze nozionistiche a completo discapito della capacità di valutare quelle legate al saper fare. E tutto questo ha avuto poco a che fare con l’impegno del singolo studente.

Tutti noi abbiamo tentato di porre riparo a ciò cercando risorse nella tecnologia, fruttando strumenti pedagogici rappresentati dalla possibilità di svolgere esercitazioni su materiali preconfezionati (ad es. ECG commentati, casi clinici guidati), ma rimangono tutti i miei dubbi su quanto ciò abbia potuto contribuire alla crescita nel saper fare. Tale problema ha avuto a mio avviso il picco di massima criticità negli studenti ammessi a frequentare il TPVES. Per costoro pur nell’andamento ondulante della pandemia abbiamo cercato di aprire spazi di accesso ai reparti clinici. Abbiamo cercato di realizzare con loro sessioni di discussioni di casi clinici. Ho provato a realizzare riunioni di reparto in cui le documentazioni cliniche venivano illustrate e commentate criticamente, ma sempre le ragioni della salvaguardia degli studenti stessi oltre che dei pazienti, hanno imposto una distanza che ha in parte vanificato questo sforzi.

La seconda riflessione, che è un corollario a quanto già espresso, fa riferimento a quella che potranno essere gli ambiti di impiego della didattica a distanza nell’insegnamento della medicina. La mia opinione è che se da una parte va sottolineata come l’offerta di piattaforme e di soluzioni informatiche ha rappresentato la risposta tempestiva data alla situazione di emergenza, dall’altra la didattica a distanza non può essere accolta come un’innovazione o una normalità. Ciò è ancora più vero per l’insegnamento della medicina per la quale la “pratica della presenza” costituisce un imprescindibile elemento. L’esperienza di questi mesi ha prodotto però anche una potentissima accelerazione di alcuni processi che hanno coinvolto l’università soprattutto negli ultimi vent’anni e sui quali si ritiene necessario avviare una riflessione critica, libera e aperta, al fine di evitare che mutamenti paradigmatici che investono l’istituzione accademica avvengano sotto la sola pressione di esigenze esterne, magari emergenziali e contingenti, e soprattutto senza un’autentica considerazione che coinvolge i modelli di insegnamento con l’idea di università che si intende promuovere.