Cambiare il paradigma della salute: COVID-19 la “lezione in presenza” con l’Urban Health come “esercitazione in laboratorio”

Cambiare il paradigma della salute: COVID-19 la “lezione in presenza” con l’Urban Health come “esercitazione in laboratorio”

Maggio 2020 Off Di Giovanni Brancato

Andrea Lenzi
Direttore Dipartimento di Medicina Sperimentale
Presidente Comitato Nazionale sulla Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita (CNBBSV) della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Presidente Health City Institute

 

In questi tempi di emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, si è sentita la necessità di dover ridefinire il concetto di salute. 

Nel secolo scorso uno studente chiese all’antropologa statunitense Margaret Mead, quale ritenesse fosse il primo segno di civiltà in una cultura. La risposta della Mead lasciò sorpreso lo studente che si aspettava una dissertazione antropologica. La Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Per lei antropologa quello era il vero segnale di una civiltà che si evolve, perché nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Resti isolato in balia del pericolo, non puoi cacciare o dissetarti al fiume sottolineando come nessun animale può sopravvivere a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca da solo. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita e bloccato l’arto fratturato, lo ha portato in un luogo sicuro, lo ha rifocillato, lo ha aiutato a recuperare il suo stato di salute.

Questo concetto di inizio della civiltà significa che oggi come all’inizio dell’evoluzione dell’uomo, ognuno di noi deve spendere più tempo a curare e prendersi cura dell’altro, perché questo significa che salute è civiltà.

All’indomani della seconda guerra mondiale, nel 1948, le Nazioni costituenti nel fondare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, definirono la salute come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia, oggi bisogna rivedere questo concetto in una definizione ancora più moderna e attinente all’evoluzione del concetto di salute e sanità.

Oggi, questo concetto dovrebbe affermare come la salute non è soltanto l’assenza di disagio o infermità, ma uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale, ma anche economico e culturale sia individuale che collettivo.

Noi medici e ricercatori di area sanitaria e biomedica dobbiamo cominciare a pensare, quindi, anche a un nuovo concetto di medicina consci che la nostra salute dipende per il 20% dalla predisposizione genetica e per l’80% dai fattori ambientali (che a loro volta influenzano geni) e la cura deve necessariamente andare oltre la persona e il concetto di malattia, ma studiare nel contempo il contesto di vita e la comunità che circonda l’individuo.

Dobbiamo passare da un concetto di medicina incentrata sul singolo paziente, a un concetto più ampio di comunità, da una “patient medicine to a community medicine”, incentrata sul valore più ampio di una salute come bene comune. La sfida di questi tempi che il nostro Sistema Sanitario Nazionale sta vivendo è epocale e dovrà, necessariamente, portare a delle ampie riflessioni in termini di politica e programmazione sanitaria dove la contrapposizione e la mancata integrazione ospedale-territorio ha fatto emergere fragilità che debbono essere viste con una rimodulazione del concetto di assistenza e cura quindi meno “patient centred care” e maggiormente incentrato, o quantomeno altrettanto, su quello di “community centred care”.

Le “eccellenze”, di cui noi stessi facciamo parte, lo sono solo se sono in grado di riconvertirsi rapidamente. La medicina personalizzata e di precisione che è e resta sicuramente il futuro non deve fare perdere di vista l’insieme dell’individuo e della collettività: una polmonite atipica è un indizio, due polmoniti atipiche possono essere una coincidenza, ma tre polmoniti atipiche sono la prova che qualcosa di “atipico” sta accadendo in quella comunità!

Una emergenza sanitaria, sociale, economica, politica globale, come quella dell’infezione COVID-19, pone tutti davanti ad una sfida darwiniana, ovvero eventi in grado di cambiare le prospettive evoluzionistiche in ambito biomedico, epidemiologico, sociale e clinico. Questi eventi e le loro conseguenze, dovranno spingere governanti, esperti, ricercatori e clinici, a riflettere sulla necessità e il dovere di considerare la malattie infettive diffusive come una minaccia sempre costante, in grado di cambiare la vita di tutte le persone e delle comunità che abitano questo “grande condominio” chiamata Terra, altrettanto quanto le malattie non trasmissibili (Non-Communicable Disease – NCD) erano, e sono diventate il nostro target di studio per aggiungere qualità alla quantità della speranza di vita del singolo.

In un mondo dove le conoscenze biomediche negli ultimi anni sono progredite costantemente con ritmi elevati ed apparentemente inarrestabili, con un grave rischio di delirio di onnipotenza; in un mondo di comunicazione costante in cui tutti si ritengono esperti e la medicina clinica ha perso valore di fronte al Doctor Google, appare, a noi veri esperti, evidente il contrasto con una medicina sempre più frazionata in silos e, talora, poco interconnessa con la società e l’ambiente.

Un ambito biomedico che dovrà, quindi, sempre più tenere conto della scienza per dare in anticipo risposte anche alle grandi sfide che fenomeni come globalizzazione, incremento sociodemografico e urbanizzazione avranno in futuro sulla salute degli individui e delle comunità.

Le città nella loro struttura urbanistica, sociale e sanitaria sono e saranno un laboratorio di questo contesto di community e saranno le prime, necessariamente, ad avere modifiche che portino a dover riconsiderare il ruolo del government e della governance della salute. Nella lingua italiana abbiamo solo una parola che è “governo” della salute che non ci aiuta e che finisce, a volte anche in maniera capziosa, a fornire alibi e generare confusione. È invece chiara la differenza tra government, ovvero il primato politico di chi prende le decisioni, e la governance che invece si riferisce a quell’insieme di entità, individui e modi che debbono realizzare le azioni di governo e render le stesse realizzabili e utili alla comunità. Due pilastri interconnessi che fanno sì che il Sistema sia in grado di prevenire, prendere rapidamente decisioni e agire anche e soprattutto durante le emergenze.

Dovranno quindi cambiare la visione ed il concetto di governo e struttura dei grandi ospedali e forse ripensarne la struttura organizzativa, la flessibilità e l’agilità di trasformazione: solo per fare un esempio per noi tangibile è stato più facile agire in strutture ospedaliere diffuse con padiglioni specializzati da accendere, spegnere e riconvertire che le strutture monoblocco ed iper-compatte dove, come sapevano i nostri maestri, le epidemie si diffondono con maggiore facilità. Dovremo ripensare al rapporto con il territorio che in questa evenienza, specie in alcune metropoli, è decisamente mancato proprio dove la concentrazione di “eccellenze” ne aveva lacerato del tutto le connessioni.

Dovrà quindi cambiare il concetto di Urban Health in una visione dinamica che sia in grado di integrare lo sviluppo urbanistico con la scelta di soluzioni capaci di incidere sulle condizioni di salute e di vulnerabilità di cittadini. Una salute, che sempre più sarà la conseguenza di fattori multidimensionali come la sanità, vista come sistema complessivo di prevenzione, diagnosi e accesso alle cure, gli stili di vita non solo più individuali ma sempre più collettivi, di Stato sociale, economico, lavorativo e culturale non solo del singolo, ma del contesto nel quale si vive, di famiglia, intesa come il nucleo di riferimento dove si sviluppano strategie quotidiane sulla salute e si vedono i primi “indizi” di malessere, e di comunità, intesa l’insieme di individui, dove gli indizi diventano “coincidenze” ed, infine, di Enti e Professionisti che incidono su un determinato territorio che devono fare il collegamento “indizi + coincidenze = prova”.

Una salute sempre più “bene comune e indivisibile per singolo individuo”.

In questi giorni stiamo imparando, in tutto il mondo, a convivere con il timore che ove la pandemia COVID-19 si espandesse incontrollata nelle metropoli, questa potrebbe essere una tragedia di dimensioni tali da essere forse, in una visione darwiniana, irreversibile per tutta l’umanità.

Una medicina incentrata sulle community significa tornare a ridefinire gli ambiti di intervento dove – early detection, early diagnosis, early prevention e early treatment – debbono trovare una nuova dimensione anche nella ricerca e nella clinica, inserendo il medico e il ricercatore in un contesto più ampio dell’ambito sanitario e mettendolo in stretta correlazione con Esperti di programmazione ed organizzazione dei servizi, di igiene sanitaria e di ambiente, per curare il “femore rotto”  del nostro progenitore primo esempio di evoluzione civile.