Covid-19: il Gerocidio virale del XXI secolo
Maggio 2020 Off Di Giovanni BrancatoAdriana Servello, Mauro Cacciafesta e Evaristo EttorreDipartimento di Scienze Cliniche Internistiche, Anestesiologiche e CardiovascolariCentro Disturbi Cognitivi e Demenze Policlinico Umberto I
Era il 21 febbraio quando l’Italia si ritrovava improvvisamente catapultata nel dramma Covid-19 e l’intero mondo medico veniva chiamato ad affrontare una nuova era di assistenza e cure, completamente trasformata nella sua morfologia originaria in soli venti giorni. Tempo sicuramente troppo breve per adeguare i servizi e per identificare e tutelare le categorie di soggetti più esposti, più vulnerabili e più bisognosi di attenzione. Abbiamo così scoperto solo sul campo che gli “older-adults” rappresentavano la classe più esposta e maggiormente colpita, arrivando a concludere che il dato anagrafico risultava essere in assoluto “La Fragilità” per eccellenza nel corso della prima Pandemia del XXI° secolo. Il crescente numero di vittime nelle classi di età >65 anni ha improvvisamente assunto i connotati di un vero e proprio “Gerocidio”, subdolo, perché ha colpito anche chi fragile in realtà non appariva, spietato, perché non ha dato modo e tempo di mettere in atto alcuna precauzione, se non che a danno ormai avvenuto ed a battaglia persa. Così età anagrafica, comorbidità, patologie pregresse, sono diventate parole chiave di una epidemia che ha colpito duramente un’intera generazione, nella nazione che ad oggi risulta essere tra le più longeve al mondo.
Longevità, difatti, è la parola che per l’Italia è stata sempre motivo di orgoglio e di vanto a livello internazionale. Il nostro paese è stato per decenni punto di partenza e di arrivo di svariate ricerche e studi di tipo epidemiologico, scientifico, socioeconomico, culturale e psicosociale riguardanti la longevità. Difatti ci collochiamo al 4° posto per aspettativa di vita alla nascita (83,6 anni) dopo Singapore, Hong Kong e Giappone. La popolazione over-65 rappresenta il 22,3% della popolazione totale, contro una media europea del 19,4%, e gli ultra75enni sono 7.058.755 di individui. L’invecchiamento della popolazione è stato raggiunto negli ultimi decenni attraverso la strutturazione di una popolazione geriatrica che al di là del dato anagrafico è riuscita a procrastinare quanto più possibile l’idea della senescenza come declino psico-funzionale, diventando altamente evoluta, attiva, al passo con i tempi e spesso propositiva. Tanto che, ad oggi, il soggetto “anziano” riesce a mantenere una qualità di vita gratificante, arricchita da svariati interessi e favorita da una condizione di salute generale abbastanza soddisfacente. E ciò accade fino agli 85 anni e spesso anche oltre. Età biologica ed età anagrafica, due grandi cardini della Geiratria, con in quali abbiamo da sempre giocato e combattuto, ci hanno permesso negli anni di dimostrare che il fenomeno dell’invecchiamento è del tutto soggettivo e che non basta solo l’elenco delle comorbidità presenti in un individuo per decretarne inesorabilmente l’ingresso tra la schiera degli “Anziani Fragili”.
Purtroppo, in tempi eccezionali, in tempo di Pandemia, l’età anagrafica è tornata prepotentemente a conquistare il suo ruolo principale, ricordandoci che, nei momenti di emergenza sanitaria e di crisi dei sistemi, il numero di anni che un individuo possiede risulta piuttosto rilevante. Fa la differenza in termini di accesso alle cure, in termini di priorità dei trattamenti, di risorse spendibili, di assistenza fruibile, di vita sacrificabile. E la longevità, negli ultimi tempi, è diventata emergenza. L’80% dei soggetti deceduti si colloca nella fascia di età>65 anni. Ad oggi, contiamo tra le vittime, oltre 17.000 “over”. Tutti ricordiamo come inizialmente il dato di elevata letalità della patologia nella popolazione anziana veniva diffuso come confortante dalla stampa, come per dire “solo gli anziani muoiono”, perché certo, se la letalità avesse riguardato le fasce di età più giovani, sarebbe stato sicuramente devastante e psicologicamente più difficile da accettare. Nel momento in cui abbiamo realizzato, però, che in quella fascia di età ricadevano comunque affetti importanti, genitori, nonni, amici, colleghi, maestri, cioè una buona parte della compagine sociale che quotidianamente ci circonda, abbiamo capito che non era più un conforto, ma, anzi, la vera e propria minaccia che un’intera generazione andasse perduta o ne uscisse inevitabilmente compromessa. Cosa che è accaduta in alcune zone di Italia, in cui un’intera generazione è svanita o, comunque, sopravvivendo si è modificata nella sua morfologia, spesso diventando più fragile fisicamente e psicologicamente.
Provocò grande turbamento la diffusione, il 06 marzo, di un documento della SIAARTI riguardante le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” in cui si affermava la necessità di stabilire “criteri di accesso alle cure intensive ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate” puntando a “garantire i trattamenti ai pazienti con maggiore possibilità di successo terapeutico” privilegiando “la maggior speranza di vita”. A quel punto capimmo tutti che la richiesta eccezionale di assistenza portava inevitabilmente con sé la necessità di scelte dolorose e il bisogno di definire dei criteri limite per gli interventi. E in quel determinato momento storico, il soggetto anziano quei criteri limite risultava possederli facilmente tutti, al di là del ricordo di una vita brillante e autosufficiente vissuta nonostante le comorbidità, l’età, le polifarmacoterapie, soltanto una settimana prima. La longevità è divenuta il nostro “Tallone di Achille” ed il nostro impegno, in termini di gestione sanitaria dell’emergenza, più faticoso e complesso. Ed oggi, nonostante sia passata la fase più critica, ancora lo è. Quel delicato dato anagrafico del +65 viene osservato con cautela, suggerisce, in alcuni contesti e ambiti, il ricorso a politiche di tutela e salvaguardia che passano per il distanziamento sociale protratto nel lungo periodo, il mantenimento quanto più possibile dell’isolamento domiciliare con la limitazione stretta anche delle relazioni familiari.
Tutto ciò, per una disciplina come la Geriatria, risulta essere un grande stravolgimento concettuale. Proiettati ormai da tempo verso il concetto di Longevità Attiva, verso il potenziamento delle risorse personali piuttosto che verso l’amplificazione della fragilità, lo scenario che ci viene consegnato oggi è quello di una popolazione di over in cui chi non si è ammalato o non si ammalerà, si troverà ad affrontare le innumerevoli problematiche legate al prolungato confinamento domestico, tra le quali la riduzione delle capacità motorie, l’isolamento sociale, i sentimenti di sconforto e depressione, lo scadimento delle performance cognitive, mentre, chi è sopravvissuto o sopravviverà all’invadenza della malattia, passando attraverso ospedalizzazioni prolungate, cure complesse, lunghi giorni di isolamento senza stimolo alcuno né contatti, si ritroverà devastato nel fisico e nella mente, con un tempo di recupero lungo davanti a se e che in molti casi non riuscirà a restituire lo standard di qualità di vita che possedeva prima della malattia. Si tratta, per tutto ciò, anche di un “Gerocidio Concettuale”, perché ha avuto in se la potenza devastante non solo della morte, intesa anche come perdita della dignità del morire accuditi e circondati dagli affetti di una vita, ma perché, più di ogni cosa, ha completamente modificato l’idea della terza e quarta età che avevamo pensato e realizzato fino a soli due mesi fa, facendoci di nuovo arretrare nella medicina di “gestione del danno e delle cronicità”.
Ecco perché oggi la Geriatria è tra le discipline più importanti per ripartire, perché con la sua caratteristica di multidisciplinarietà può garantire un ricostruzione solida e duratura, perché la Geriatria è una disciplina “complessa” anche se la tendenza di questi ultimi anni è stata quella di renderla “semplice”. E’ prevenzione, è sanità pubblica, è acuzie, è cronicità, è un dettaglio nell’insieme, è psiche e materia, è sociologia e welfare, è programmazione e innovazione, si articola nei tre tempi della vita, cosa del tutto peculiare, in quanto è studio meticoloso di ciò che era ieri, analisi di ciò che è oggi e programmazione accurata di quel che sarà domani ed è una catena che deve funzionare in ogni suo anello, perché la rottura di uno solo di essi crea un effetto domino devastante. E’ la fragilità fatta diventare forza, ma che in un attimo, proprio come è accaduto all’inizio di questo 2020, può diventare nuovamente fragilità e, inaspettatamente, morte. La memoria di ciò che è stato deve servire da guida nel ricostruire e nel riprogrammare con saggezza e lungimiranza, in modo che non emerga più una classe particolarmente fragile e sacrificabile, negli ospedali, nei luoghi di cura e di assistenza o semplicemente tra le mura domestiche. La medicina dei “tre tempi” ci deve appunto aiutare a valutare ciò che è accaduto ieri, analizzare quel che vediamo oggi e programmare un domani ricostruito con saggezza e lungimiranza, riportandoci ad avere un sistema in grado di curare serenamente le patologie a qualsiasi livello di complessità, comorbidità ed età.
Perché nessuno diventi più, sacrificabile.