Le cause della contrazione delle nascite in Italia
Gennaio 2022 Off Di Giovanni BrancatoMaria Di Chiara
Dottoranda di Ricerca
Il tasso di natalità misura la frequenza delle nascite di una popolazione in un determinato arco temporale ed è calcolato come rapporto tra il numero dei nati in quel periodo e la popolazione media. L’Italia sale sul podio, sì, ma dei minimi storici per numero di nascite. È quanto emerge dal bollettino dell’Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente 2020”; si è assistito ad una costante e progressiva contrazione delle nascite, da 576.659 nati nel 2008 a 404.892 nel 2020, che interessa tutto il Paese. La percentuale di nascite deve essere interpretata alla luce del concetto di tasso di fecondità totale (Tfr), ossia il numero medio di figli per donna, che per quanto concerne le donne italiane è di 1,17, il numero più basso di sempre. Questa deflessione della curva delle nascite non sembra voler modificare la sua traiettoria, infatti, la denatalità prosegue nel 2021. Secondo i dati provvisori di gennaio-settembre le minori nascite sono già 12 mila 500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020.
Non solo l’Italia vive questo fenomeno, che sembra essere diffuso in molti paesi del mondo. La rivista Lancet ha elaborato uno studio in cui si prevede che entro il 2050, 151 Paesi abbiano un Tfr globale inferiore al livello di sostituzione (2,1), e si prevede che 183 abbiano un Tfr inferiore alla sostituzione entro il 2100. Inoltre, si prevede che 23 Paesi nello scenario di riferimento, tra cui Giappone, Thailandia e Spagna, abbiano un calo della popolazione superiore al 50% dal 2017 al 2100. I risultati di Lancet individuano tra le cause che accelereranno il calo della fertilità e rallenteranno la crescita della popolazione l’istruzione femminile e l’accesso alla contraccezione. Il tasso di natalità è un numero che riflette una condizione multifattoriale, per tale ragione indagare la correlazione esistente tra il dedalo dei fattori sottostanti che lo possono aver determinato è complesso. Esperti di economia e sociologia hanno spiegato negli anni che la prociclicità del settore finanziario sia il principale determinante della fluttuazione del tasso di natalità. Tuttavia, resta ancora difficile comprendere il nesso causale dell’inverosimile e costante contrazione delle nascite che ha seguito la Grande Recessione. Le variabili comunemente studiate e considerate quindi i principali fattori di rischio quali il tasso di disoccupazione e il debito pubblico non riescono completamente a spiegare questo fenomeno. Gli esperti hanno ampiamente chiarito come nei Paesi con economia più avanzata, l’incremento dei tassi di disoccupazione sia fortemente correlato al calo della fertilità. Tuttavia, il drammatico calo delle nascite, che permane anche anni dopo la crisi economica, resta un enigma irrisolto. Pertanto, negli ultimi anni si è iniziato a parlare di un nuovo concetto, definito “incertezza esistenziale”, una condizione in cui il futuro non può essere dedotto dalle informazioni in possesso nel presente. Incertezza del futuro, quindi, imprevedibilità di ciò che può succedere, quale fattore determinante la contrazione delle nascite.
Uno studio recente condotto da ricercatori italiani ha dimostrato il nesso causale tra “incertezza esistenziale”, dovuta principalmente alla precarietà del lavoro, e riduzione di nuovi nati. La segmentazione del lavoro ha interessato sempre più Paesi, tra cui l’Italia a partire dagli anni ’80 e sembra correlare con il calo delle nascite. L’incertezza, tuttavia, non è solo economica, ma comprende il senso di precarietà dell’individuo che non riesce a identificare l’orizzonte, che si sente in balia degli eventi, non padrone della misura del tempo e dei sentimenti, e che deve rispondere ad un bisogno primordiale di procreazione senza credere nel futuro. Sarebbe interessante capire se questo concetto di incertezza descritta, quale causa del calo delle nascite nel nostro Paese, interessi anche quei Paesi, così diversi tra loro, come Giappone e Grecia, che ci fanno compagnia in coda alla classifica del numero di nascite. I numeri parlano chiaro: si assisterà ad una modifica della struttura dell’età mutevole in molte parti del mondo con 2,37 miliardi di individui di età superiore ai 65 anni e solo 1,70 miliardi di età inferiore ai 20 anni, nel 2100.
Evidentemente non siamo un Paese per giovani. Ma quante di queste nascite sono da genitori italiani? Nel 2020 i bambini nati da almeno un genitore straniero sono stati quasi il 22%. Tra il 2000 e il 2018 l’immigrazione ha svolto un ruolo preponderante rappresentando il 32% delle nascite in Nord America, e ben l’80% delle nascite nella nostra Europa. L’immigrazione, fenomeno più che mai dibattuto, controverso e strumentalizzato svela il vero tallone d’Achille del Nord Europa, ossia il calo delle nascite. A partire dagli anni duemila l’apporto dell’immigrazione, in particolare dovuto alle grandi regolarizzazioni con la concessione di moltissimi permessi di soggiorno tradotti in un “boom” di iscrizioni in anagrafe dall’estero (oltre 1 milione 100 mila in tutto), da qui “boomers”, ha parzialmente contenuto gli effetti della denatalità; l’immigrazione può quindi risolvere il dilemma demografico? Le “boomers”, che hanno fatto il loro ingresso o sono “emerse” in seguito alle regolarizzazioni, hanno realizzato nei dieci anni successivi buona parte dei loro progetti riproduttivi nel nostro Paese, contribuendo in modo importante all’aumento delle nascite. Ma le cittadine straniere, che finora hanno parzialmente riempito i “vuoti” di popolazione femminile stanno a loro volta invecchiando. La struttura mutevole dell’età della popolazione ha conseguenze disastrose in termini di mercato del lavoro e di concreta minaccia per sostenibilità fiscale del sistema pensionistico di un Paese con economia avanzata. È estremamente difficoltoso sostenere un sistema pensionistico in Paesi con rapido incremento dell’età media, basti pensare che in poche decadi si è passati dall’avere un rapporto, tra persone intese come forza lavoro e quelle in pensione, di 10 a 1 a 10 a 4. Anche i nati da nati da genitori entrambi stranieri subiscono una deflessione, arrivando per la prima volta nel 2020 sotto la soglia dei 60 mila (59.792, -20 mila in meno rispetto al 2012), probabilmente anche per effetto delle dinamiche migratorie nell’ultimo decennio, e costituiscono quindi il 14,8% del totale dei nati.
Incertezza esistenziale, precarietà lavorativa, riduzione di fenomeni migratori, contrazione delle nascite ma incremento dell’occupazione femminile, un paradosso? Negli ultimi decenni i Paesi sviluppati sono stati testimoni di cambiamenti culturali rapidissimi che hanno visto un crescente coinvolgimento delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, in tutti i Paesi dell’UE la partecipazione al mercato del lavoro delle donne è inferiore a quella degli uomini. Negli ultimi cinquanta anni le donne hanno vinto moltissime battaglie per la conquista dell’emancipazione femminile; tuttavia, sembra che l’evoluzione culturale ed economica teorica non abbia avuto un riscontro pratico. Purtroppo, sembra che l’ingresso della donna nel mercato del lavoro abbia avuto un impatto negativo sulla genitorialità o viceversa. La categoria delle donne con figli a carico, in Europa, è in media, più di otto punti percentuali inferiore al tasso di occupazione delle donne senza figli. Divario che raggiunge i 30 punti percentuali in Paesi quali Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. La donna, a gamba tesa ha conquistato diritti sacrosanti, forse però la generazione successiva, a partire dagli anni ‘80, ne sta pagando le conseguenze altrettanto rapidamente. Non siamo un Paese per giovani e forse non per donne, con un futuro di sicuro incerto ma non per questo precario. La generazione “Z” con un presente già incerto sembra essere pronta ai cambiamenti, al lavoro non più sicuro ma fluido, visto come opportunità non come precarietà, alla riqualificazione della figura femminile nella speranza di soddisfare quanto sancito dall’’articolo 37 della nostra Costituzione che stabilisce che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».